Ricchezze manifeste o latenti nelle traduzioni di Patrizia Valduga e Cesare Garboli: gli allestimenti dell’Avaro di Lamberto Puggelli (1996) e Marco Martinelli (2010)
Abstract
Come gran parte delle commedie di molière, L’Avaro ha una nutrita tradizione di traduzioni italiane. Per limitarci al novecento e al nuovo millennio, fino al 1950 si contano ben 23 edizioni novecentesche in traduzioni diverse,1 fra i traduttori : natalino sapegno2 e massimo bontempelli.3 Né la fortuna cessa dopo il 1950. Fra le nuove traduzioni più recenti si ricordino quella di luigi lunari edita nel 1981,4 di sandro bajini edita nel 19945 e di luigi squarzina edita anch’essa nel 1994.6
Non mi occuperò qui di seguito della tradizione novecentesca delle traduzioni dell’Avaro, né della collazione di tutte le traduzioni a stampa dell’ultimo ventennio, ma di due fra le traduzioni più recenti che sono alla base dell’interpretazione registica della commedia di molière rispettivamente di lamberto Puggelli (1996) e di marco martinelli (2010).
Senza volere riprendere nel suo insieme la vexata quaestio se una traduzione contenga già in sé una messa in scena,7 secondo la nota affermazione di antoine Vitez che, insistendo sull’oralità come senso e direzione della traduzione per il teatro, sosteneva appunto che « traduire est déjà mettre en scène » (tradurre è mettere in scena),8 mi soffermerò su talune scelte dei traduttori in questione che sembrano avere orientato le due letture registiche.